Formarsi all’estero si traduce quasi sempre in un’esperienza che arricchisce, da più punti di vista, il background di una persona, grazie alla conoscenza di nuove lingue, di nuove realtà e di nuovi stili di vita e mentalità. Ma quando si decide di intraprendere un percorso professionale di stampo internazionale, questo tipo di formazione diventa centrale e indispensabile.
Abbiamo approfondito questa tematica con Salvatore Iaconesi, programmatore, che conduce insieme alla moglie un centro di ricerca.
Ciao Salvatore, benvenuto. Partiamo dalle basi… di cosa ti occupi?
Sono artista, ingegnere e designer. Conduco con mia moglie Oriana un piccolo centro di ricerca (HER – Human Ecosystems Relazioni) che si occupa di comprendere il ruolo dei dati e della computazione nella società.
Potrebbe sembrare un tema un po' astratto, ma non lo è affatto. Basti pensare a quanto, oggi, le nostre esperienze nel mondo siano mediate tecnologicamente. La scelta di cosa comprare o consumare, di come condurre le nostre relazioni, di come informarci, di come conoscere il mondo o di come comunicare ed esprimerci è sempre mediata. Le tecnologie sono sempre presenti, sia in modo esplicito (gli smartphone, i social network, i servizi online...) sia in modo implicito (ad esempio, quando si cammina per strada, senza rendersene conto si generano continuamente dati, attraverso le telecamere installate lungo le vie). Tutto ciò ha un forte impatto nella vita di tutti: si può trovare o perdere il lavoro a seconda di come i propri dati siano stati raccolti ed elaborati; può aumentare la rata dell'assicurazione; si può trovare o meno l’anima gemella ecc..
Il nostro centro di ricerca ha anche un'altra peculiarità: usa l'arte e il design come ulteriore strumento per investigare la realtà. Ciò vuol dire che assieme agli strumenti ordinari della ricerca, come i computer, i questionari, le strumentazioni elettroniche di vario genere, progettiamo e realizziamo opere d'arte, installazioni, performance partecipative e interventi di design con il duplice scopo di portare la ricerca dove sono le persone e permettere alle persone di comprendere gli scopi, i metodi i risultati e l’importanza della ricerca. Infine, lavoriamo con le università, le istituzioni nazionali e internazionali (la Commissione Europea), le organizzazioni e con aziende di vario genere.
Durante la tua formazione hai svolto periodi di formazione all’estero?
Certo!
Sei stata arricchito da questa esperienza?
Per me e per noi è di fondamentale importanza avere un impatto internazionale e rinnovarlo costantemente. Questo si ottiene sia andando a raccontare le proprie esperienze in giro per il mondo, ma anche, e soprattutto, andando ad ascoltare ed imparare.
Siamo molto fortunati: se lo si vuole oggi è molto semplice viaggiare. La pandemia globale di questi giorni ha messo a dura prova questa affermazione e ciononostante è stata l'ennesima conferma della fortuna che abbiamo, in quanto dotati di innumerevoli strumenti che ci permettono di viaggiare anche virtualmente, e di entrare in contatto con persone diverse.
Quanto è importante per il tuo lavoro fare esperienze all’estero?
Molto. Nella nostra organizzazione curiamo specialmente 3 elementi: i viaggi di racconto e ascolto; le fellowship; i progetti internazionali. I primi sono brevi viaggi in cui prendiamo appuntamento con aziende, istituzioni e organizzazioni per raccontare il nostro lavoro e per ascoltare e imparare da quello degli altri. Possono essere organizzati appositamente o, per esempio, essere in coda ad altri viaggi, quando ci troviamo all'estero per qualche motivo. Ci è anche capitato di prendere qualche giorno extra di ferie per andare in visita alle organizzazioni.
Le seconde rispondono a dei programmi specifici. Io, ad esempio, sono TED Fellow, Eisenhower Fellow e Yale World Fellow. Con la prima fellowship ho avuto la possibilità di partecipare con un mio talk a TED Global, a Edimburgo, e ad essere introdotto nella vasta community di TED. Con la seconda ho avuto l'opportunità di organizzare un viaggio in giro per gli Stati Uniti, per andare a visitare le aziende, le università e i centri di ricerca più rilevanti per il mio lavoro. Nella terza ho avuto l'opportunità di frequentare il campus di Yale per sei mesi, di frequentarne i corsi, di fare presentazioni sul mio lavoro e di ascoltarne da altri. Sono periodi intensi, completamente immersivi e profondamente trasformativi.
Per ultimo, curiamo molto la possibilità di partecipare a progetti internazionali. Essere esposti ai modi in cui le persone in giro per il mondo fanno le cose, alle diverse metodologie, alle pratiche, agli atteggiamenti e alle culture, è una cosa di importanza fondamentale: ti permette di diventare più aperto, di capire meglio le cose e di comprendere meglio il mondo che abiti.
Infine, tutte queste cose si possono fare, in un certo senso, anche in modo virtuale. L'unica cosa, forse, da evidenziare è che è fondamentale curare i propri rapporti interazionali e frequentare assiduamente un ambiente internazionale. Non solo Statunitense, o Cinese, o Berlinese, o cosa sia di moda in quel momento. Per esempio, chi conosciamo in Iran, India, Mongolia, Australia, Islanda, Algeria, Nigeria, Brasile o in altri luoghi? Quali ricercatori ci sono? Come e perché potremmo metterci in contatto con loro? Che cosa potremmo imparare da loro? È questo il genere di domande che ci dobbiamo porre, per essere esposti ai problemi e ai punti di vista del mondo.
Nel campo nel quale lavori, quali sono le abilità che, secondo la tua esperienza, un periodo di formazione all’estero ti può fornire?
L'apertura, sicuramente. Il non aver, per quanto possibile, preconcetti ed essere aperto al valore che costituisce la compresenza di punti di vista differenti.
Quali sono le caratteristiche che una risorsa junior deve avere per lavorare nel tuo settore?
Una grande curiosità e l'essere disposto a passare una vita a studiare e ad apprendere sempre nuove cose. Sembra una cosa “bella”, detta così, ma vi assicuro che non è facile.
Quali sono i paesi europei nei quali consiglieresti di svolgere un periodo di formazione perché all’avanguardia per la tua professione?
Io consiglio sempre di cercare, essere curiosi, invece di fare quello che fanno tutti gli altri. Anche in questo caso: perché non andare in Albania, in Bulgaria, in Polonia, o in altre nazioni che sono meno target dell'attuale mercato? Si impara di più, si è esposti a sfide più complesse, ci sono città, paesaggi, suoni e cibi bellissimi e meno usuali.
Mediamente quanto ritieni debba durare un’esperienza all’estero perché comporti una crescita?
Io amo gli estremi: o un’esperienza cotta e mangiata, ad esempio un incontro o un workshop, o un’esperienza vera a propria, che vada dai sei mesi in su.
Quali sono le soft skills che in genere presenta un candidato che ha svolto periodi di formazione all’estero?
Di nuovo: l'apertura e il saper lavorare con persone che la pensano diversamente da te. Un altro fattore di arricchimento è la capacità di essere chiari nella comunicazione.
Qual è il consiglio che daresti a un giovane che vuole cominciare a lavorare nel tuo campo?
Conoscere bene la tecnica, ma circondarsi di umanisti.
Per fare queste cose bisogna sapere fare tecnicamente benissimo tutto: dal software, all'intelligenza artificiale, alla falegnameria, all'idraulica e tutto quello che c'è nel mezzo, incluso il suono, la luce ecc..
Però bisogna frequentare gli umanisti: i letterati, gli psicologi, gli antropologi, i sociologi, gli architetti (che, in un certo senso, sono gli umanisti dell'ingegneria) e altri, perché per fare bene questo lavoro bisogna imparare bene a conoscere, comprendere e accettare gli esseri umani.
Chiudiamo con una domanda leggera per salutarci… qual è l’oggetto che non manca mai nella tua valigia quando viaggi per lavoro?
Un quaderno, un pennarello, il libro che sto leggendo e un sacco di vitamine e integratori: mi hanno salvato la “vita” più di una volta!
Grazie per il tempo che ci hai dedicato!
Grazie a voi!